Suggestiva e misteriosa, la fotografia di Giuseppe Pennisi ci presenta la scenografica montagna in una dimensione intima e ispirata alle pagine impolverate di vecchi libri. Un’interpretazione personale e poetica di una vera e propria icona della comunità luganese.
La mostra I Denti della Vecchia di Giuseppe Pennisi nasce dallo sguardo ammirato e rispettoso dell’artista e dalla sua ricerca di un’estetica della montagna, con la sua particolare conformazione e i suoi caratteristici torrioni, sito storico dell’arrampicata ticinese, ma anche luogo mitico di antiche leggende popolari. Attraverso l’uso magistrale del mezzo fotografico, Pennisi supera il reale e il simbolico, restituendo un immaginario fascinoso che ricorda le atmosfere esplorative degli scatti di inizio del ‘900 dei fotografi pionieri della montagna.
I Denti della Vecchia è un’opera/mostra articolata in 35 scatti, in cui il quotidiano rapporto dell’artista con la montagna apre squarci ad un tempo sospeso, ad una relazione investigativa privata che, in ogni scatto, racconta un vissuto legato alla solitaria contemplazione e alle lunghe camminate sui suoi sentieri.
Camminare è per Pennisi un atto cognitivo dove costruire una personale esperienza legata a quei luoghi raccogliendo le espressioni più significative.
Una fotografia ipnotica, dalle luci incipriate e dai contrasti forti su sfondi sporchi e invecchiati, svela, immersa tra le nebbie, la silenziosa ed eterna grandezza della montagna e la bellezza eterea delle sue rocce.
Le foglie, le bacche, i rami, le pigne, i sassi e quant’altro ancora appartenga alla montagna sono invece ritratti dall’autore al di fuori del loro ambiente naturale. Organizzati su un piano in maniera rigorosa, questi formano composizioni che inseguono la grammatica della ricerca e dell’interrogazione, ma altre volte, disposte in maniera totalmente accidentali, perseguono le regole della casualità e del gioco. In ogni caso, appaiono come elementi unici, misteriosi, quasi astratti, poetiche visioni realizzate attraverso raffinate elaborazioni digitali, che ricordano segni pittorici e pattern.
Se la montagna e gli elementi del suo paesaggio sono la materia prima del fotografo, la sua fotografia incarna una pratica lenta ed esplorativa, faticosa e meditativa, accurata e rispettosa, delicata e sensibile. E’ un laboratorio in cui riconoscere e classificare le sottili relazioni in un personale atlante della montagna che non ha alcuna pretesa di essere esaustivo, ma che tenta di evocare la sua anima tramite l’armonia nei suoi oggetti visivi, che vicini o distanti misurano un grado di familiarità con l’artista ma che, inafferrabili, rimandano sempre a quell’altrove sospeso tra il mondo reale e l’esperienza interiore.
Testo a cura di Elisabetta Rizzuto